Valore legale del titolo di studio: priorità del sistema universitario?

riflessioni dalla lettera aperta di Freyrie a Monti

La questione dell'abolizione del valore legale del titolo di studio entra tra i temi di Governo. Discussa in Consiglio dei Ministri, ha incontrato consensi e chiusure che hanno portato a rimandare ogni decisione in merito ad una prossima consultazione pubblica online. Ci si chiede se sia giusto dare peso al voto di laurea nei concorsi e se sia altrettanto giusto assegnare alla laurea un valore indipendente a prescindere dall'università, sia essa un'eccellenza o meno.

Negli ultimi anni gli atenei si sono moltiplicati. Ventuno le sole facoltà di architettura in Italia, e da Milano a Palermo il 110 ha ovunque ugual valore. Una situazione certamente iniqua che non dà adeguato risalto al merito.

Risolvere però il divario attraverso un indebolimento del valore legale della laurea non è la strada giusta. Il concetto dell'abolizione porta con sé un'accettazione della realtà ed un sottrarsi delle istituzioni al loro ruolo: garantire una qualità diffusa degli insegnamenti in tutto il territorio italiano. È quanto ha sottolineato Leopoldo Freyrie, presidente del Consiglio Nazionale Architetti, in una lettera aperta indirizzata al professor Monti.

La qualità deve essere il fine ma anche il principio di ogni azione, perché tutti gli studenti italiani dovrebbero poter conseguire un titolo equipollente, «indipendentemente dal luogo in cui vivono e dalle risorse che hanno» ha aggiunto il presidente del CNAPPC.

Ed allora sarebbe più giusto agire sulla causa e non sull'effetto. La ragione del divario  è evidente, tutto dipende «dalla capacità delle persone che le dirigono, insegnano e ci lavorano» scrive Leopoldo Freyrie. E, Monti pare non si discosti molto dal concetto, infatti il «sistema di governance lasciato nelle mani dei professori» viene identificato dal premier come uno dei principali mali dell'università italiana, anche se affiancato dalla mancanza di concorrenza. Questo, almeno, il pensiero affidato alle pagine de La Repubblica.

Ed è lì il punto. La qualità è nelle persone che fanno parte di quelle strutture. È in coloro che hanno sulle spalle la responsabilità di formare gli studenti. È  nelle regole di reclutamento e nella ricerca svolta seriamente.

Ma ostacolo più grande è il potere ai pochi, di quei professori capaci di decidere la sorte di ricercatori, associati e dottori di ricerca, collocandoli nel quadro della propria volontà ed in barba all'interesse della collettività. Eppure il concetto è semplice: un professore in grado di portare avanti una ricerca inedita è persona capace (se reclutata secondo le regole) oltre che appassionata, perché la ricerca è cosa faticosa. Quella stessa persona è garanzia della qualità dell'insegnamento di cui è titolare.

Gli sforzi e gli interessi del governo in questa direzione ci sono e bisogna riconoscerli. Tra questi l'azione della neonata Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario) pronta ad iniziare un controllo diffuso, come non lo è mai stato, sulle pubblicazioni di tutti i professori, compresi i ricercatori. Ne scaturiranno giudizi sui dipartimenti e sulla loro ricerca, ed allora non sarà difficile individuare dove è l'eccellenza e dove la mediocrità.

I giudizi espressi porteranno ad una classifica delle università che servirà per attrarre maggiori finanziamenti verso i casi virtuosi ed attivare la concorrenza tra atenei. Si tratterà anche di una forma di conoscenza alla quale lo studente potrà attingere per scegliere l'università che crede e farlo consapevolmente (sempre che ne abbia le risorse).

Ma non basta. Non si arriva a quella qualità diffusa, per dirla con il presidente Freyrie, attraverso «la concorrenza tra Atenei e l'abolizione di "pezzo di carta"». Sono ben altri i problemi e sono tutti interni alle nostre università. E ancor più drammatica è la situazione dei ragazzi: laureati, specializzati, consapevoli di poter spendere le proprie energie in maniera utile, ma spesso bloccati dal contesto lavorativo e dai sistemi di reclutamento. Una folla di ragazzi che non crede nei concorsi pubblici e che ha certezza che valga più la conoscenza influente che non il merito.

Di certo il vero problema dei concorsi non è il punteggio attribuito al voto di laurea, ma la garanzia di uno svolgimento trasparente. In ogni caso, non è il 110 o la lode a decidere il vincitore di una selezione.  Il voto ha un peso minimo rispetto ai punteggi di tutte le prove e nei grandi concorsi non è affatto considerato in fase di preselezione, quando avviene la grande scrematura.

Per cambiare veramente le cose - riprendendo le parole di Leopoldo Freyrie «bisogna intervenire sul principio (la qualità degli insegnamenti) e non sulla fine (il valore della laurea)» e aggiungerei sulla trasparenza dei concorsi pubblici. Altrimenti sembra si distolga l'attenzione dalle cose che davvero contano, quelle prioritarie.

di Mariagrazia Barletta architetto

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